4.6.08

RAFFAELE VIVIANI


VIVIANI RAFFAELE - Castellammare di Stabia (Napoli), 10 gennaio 1888 - Napoli, 22 marzo 1950.

Che il Viviani sia stato commediografo e attore in campo nazionale - anzi internazionale - per noi napoletani è motivo d'orgoglio, ma quello che ci inorgoglisce maggiormente è il fatto che fummo i primi a riconoscere il suo eccezionale talento e la sua autentica grandezza. La sua arte scenica affascinò le masse ed elettrizzò prima le platee locali, poi quelle del mondo, ove portò il vero cuore di Napoli, le sue grandezze, le sue miserie, la sua rassegnazione, la sua ribellione: quel misto ch'è il poco o il molto di un popolo che ha una storia e un passato millenari. Teatro tutto suo, quello di Raffaele Viviani: strappato di netto alle radici della sua terra.
Se l'attore domina il poeta, il poeta domina l'attore: si completano entrambi. Presa letterariamente, la poesia del Viviani e quella che e riproduzione fedele della vita, degli usi e dei costumi del suo popolo, che amava d'intenso amore.
Così nelle canzoni: e il cuore semplice di un uomo del popolo che canta e si effonde, e prorompe e impreca, e si lamenta, e prega, e benedice, sull'altalena di un verso che, se pure spesse volte rude, e pur sempre efficace, toccante, suadente.
Aveva quattro anni quando debuttò in un teatrino d'infimo ordine: il Masaniello a Porta Capuana (una baracca costruita dal padre, vestiarista teatrale), dove sostituì il cantante Carlo Ciofi, ammalatosi.
L'anno dopo cantava da solo e a duetto con sua sorella Luisella - che divenne poi meravigliosa cantante e grande attrice della compagnia del fratello -. Nel 1905 ottiene il suo primo strepitoso successo al teatro Petrella con la canzone 'O scugnizzo, di Capurro e Buongiovanni, che poi fece sempre parte del suo repertorio. Da qui man mano conquista il pubblico dei maggiori teatri di varietà di Napoli e di tutta la penisola. Nel dicembre 1917 forma la sua prima compagnia musicale napoletana, e da allora, fino al 1945, la sua attività di attore capocomico e commediografo non ha più sosta ed ottiene un vero plebiscito di entusiasmo dal pubblico italiano ed estero. Nello stesso tempo pubblica libri di memorie, di poesie, di teatro. Già nel 1906 aveva scritto una risposta alla canzone in voga Cara mammà, intitolandola Caro Totò, e una macchietta: Fifì Rino, che ebbe successo sia nella sua interpretazione, che in quella di altri comici dell'epoca. Successivamente diede il via ad un nuovo genere di macchietta, a tempo di marcia: uno stile piacevole, che riempi il repertorio dei De Marco e dei Totò. Poi le canzoni, con musica tutta sua o di altri non si contarono più. Le pubblicarono Bideri - col quale vinse un premio della «Tavola Rotonda», nel 1912, con Ce vevo 'a coppa - La Canzonetta e Gennarelli. Molte di esse furono inserite, e ne facevano parte integrante, nelle belle commedie dello stesso Viviani.
Fra le tante, due sono principalmente da ricordare: Bammenella e Quanno iarraie a spusà, ripubblicate nel 1917.

Ettore de Mura - Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969



Un ubriaco di diciassette lire

Ancora oggi di Viviani, a cinquant'anni dalla morte si ricorda la grandezza dell'attore. L'attore, così complesso e dotato, con quell'eccezionale maschera capace di assumere mille sembianze e mille espressioni, sovente senza neppure l'ausilio del trucco, con quella sua figura sottile e scattante, capace di impersonare un giovanotto oppure un vecchio cadente, l'attore che sapeva interpretare con tanta efficacia sentimenti semplici e complesse passioni, si impose, ancora ragazzo, anche alle platee più distratte e sprovvedute. E fu l'attore che aprì le porte dei più grandi teatri italiani ai propri testi, con la carica innovatrice che essi contenevano, e con la rappresentazione di una società profondamente lacerata e sofferente. Quei testi che provocavano lo scandalo e l'ostilità degli ambienti italiani benpensanti, abituati a considerare idilliaca e canzonettistica la vita del popolo napoletano. Non parliamo poi della censura fascista: i tagli e gli ostracismi non si contavano. Per fortuna, il censore, qualche volta, restituiva un copione scabroso con una nota al margine: «Si autorizza la rappresentazione solo se recitato dall'attore Viviani».
Soltanto ora, quando il trascorrere del tempo ha accumulato tanta nebbia, quando dell'attore resta solo un ricordo vivo nella generazione con i capelli bianchi, la critica ha collocato l'autore al posto che gli compete, autore cioè fra i massimi del Novecento. Negli ultimi anni della sua vita, quando in lui si erano affievolite e poi spente le illusioni di tornare a recitare, Raffaele Viviani cercava ancora di combattere il disperato isolamento in cui la malattia lo aveva gettato scrivendo alle varie case editrici perché pubblicassero il suo teatro. Ma gli giungevano solo risposte freddamente evasive.
L'opinione corrente di allora era ancora ferma nel considerare le sue commedie semplici canovacci che l'interprete Viviani, alla maniera dei grandi attori della Commedia dell'Arte, ritesseva ogni sera con le sue estemporanee improvvisazioni. Solo quando, nel 1957, è apparsa nelle edizioni della ILTE una prima selezione del suo teatro, critici, artisti, studiosi hanno scoperto che il margine di estemporaneità dell'interprete era nullo: l'Autore, da grande uomo di teatro, aveva fissato non solo nel testo scritto, ma anche nelle didascalie e nella presentazione dei personaggi, compiutamente la sua opera creativa. Egli odiava, infatti, ogni forma di faciloneria e di improvvisazione e, fin dall'inizio della sua attività nel teatro di prosa, impose a se stesso e agli attori della propria compagnia un rigore interpretativo e una fedeltà al testo scritto che erano assolutamente sconosciuti nel teatro napoletano di allora. Era un regista esigentissimo, che non perdonava neanche il più piccolo sbaglio o una semplice dimenticanza. Gli attori erano tenuti a imparare le parti a memoria già durante le prove e neanche per la prima rappresentazione era consentito l'aiuto del suggeritore. E ciò anche nel periodo in cui recitava al Teatro Umberto di Napoli. A quell'epoca, quasi ogni sera, Viviani metteva in scena una nuova commedia. Il pubblico affluiva numerosissimo in quella piccola sala situata nei pressi di piazza della Borsa. Si davano due rappresentazioni miste di prosa e varietà, tre la domenica. Uno spettacolo non poteva durare in cartellone più di una settimana perché così esigevano gli accordi con l'impresa del teatro. Si dovevano, nel giro di pochi giorni, allestire sempre nuove rappresentazioni. L'autore Viviani scriveva di notte dopo lo spettacolo; il regista Viviani dirigeva le prove della compagnia durante le mattinate seguenti; l'attore Viviani iniziava a recitare nel pomeriggio per finire dopo la mezzanotte, ora in cui l'impresario Viviani faceva i conti con l'amministratore e finalmente si concedeva due o tre ore di sonno. Ebbene, neanche in questo inizio travolgente egli concesse nulla a se stesso e ai suoi compagni. Era un regista severo. Ogni battuta, ogni inflessione di voce era studiata, ripetuta decine di volte. Egli recitava per i suoi attori i vari personaggi della commedia ed esigeva che essi riproducessero fedelmente i suoni della sua voce, l'atteggiamento del suo volto, le sue movenze, le sue posizioni sceniche. Spesso si impuntava su una battuta anche per mezz'ora e si rifiutava di andare avanti se non aveva ottenuto l'effetto voluto. Alla sua scuola di recitazione si formò, nel giro di pochi anni, un gruppo di attori che in seguito riscosse grandi elogi dai più severi critici italiani: Agostino Clement, Vincenzo Flocco, Salvatore Costa, Gennarino Pisano, Salvatore Ragucci rimasero nella sua compagnia per lunghi anni, diventando sempre più bravi. Erano attori nati e formati da quel teatro e da quella scuola, ne avevano assimilato lo spirito e si erano maturati attraverso un nuovo metodo di recitazione che si basava sulla fedele interpretazione del testo scritto. L'uso frequente, soprattutto nel teatro vivianesco della prima maniera, di dialoghi in versi fra molte persone concertati su un ritmo musicale, imponeva non solo di restare fedele a ogni sillaba, ma anche di entrare in battuta secondo un ritmo che non poteva essere minimamente alterato. Altro che canovacci per l'improvvisazione di un grande attore! A volte, però, neanche un regista severo ed esigente come Viviani riusciva a cavare sangue dalle pietre. Negli ambienti teatrali è rimasto famoso un episodio: era in prova l'atto unico La cantina 'e copp' 'o campo. Come tutti gli atti unici del suo primo teatro, sulla scena si muoveva un gran numero di personaggi. Ogni attore si doveva sobbarcare la fatica di interpretare, a pochi minuti di distanza, due o tre ruoli diversi. Nella distribuzione delle parti ci si accorse che, nonostante tutti i raddoppi, restava tuttavia scoperto il ruolo di un ubriaco che doveva dire solo poche battute, ma importanti nell'azione scenica della commedia. In mancanza di meglio, il ruolo dell'ubriaco fu affidato a un vecchio generico della compagnia, un tal Savoia che prendeva una paga giornaliera di diciassette lire, paga assai modesta anche per quei tempi. Quella volta fu proprio sulle battute dell'ubriaco che si impuntarono le prove. Mio padre, con certosina pazienza, aveva fatto ogni tentativo per ottenere che il poco dotato generico riuscisse a imitarlo, che copiasse la sua andatura traballante, il suono della voce stridulo, l'atteggiamento del volto e il gesto stralunato dell'ubriaco. Nei ripetuti tentativi il tempo era trascorso oltre misura e la tensione tra gli attori andava crescendo. Fu allora che il povero generico, prendendo il coraggio a due mani esclamò: «Ma insomma, cosa volete da me? Non potete pretendere di più. Mi pagate diciassette lire, tanto valgo e mi contento, ma solo un ubriaco da diciassette lire da me potrete avere!». Una risata generale, che coinvolse anche il difficile regista, ruppe la tensione e la prova così poté andare avanti.


I portoghesi

L'antipatia per i portoghesi l'ho ereditata da mio padre. Ho molte amicizie e conoscenze nel mondo del teatro, ma mi vergognerei come una ladra se dovessi accodarmi a quelle piccole file che aspettano l'amministratore o il capocomico presso il botteghino all'ora dello spettacolo per chiedere un ingresso di favore. Il ricordo delle sofferenze che facevano patire a mio padre i portoghesi è troppo vivo non solo nella mia memoria, ma in quella di tutta la famiglia, a cominciare da mia madre che, per questo, usava acquistare il biglietto d'ingresso perfino quando si rappresentava il repertorio di Viviani. E fenomeno dei portoghesi esiste, è vero, in tutta Italia, ma a Napoli ha una particolare accentuazione. Mio padre veniva a lavorare a Napoli quasi sempre all'epoca delle feste di fine d'anno, perché poteva trascorrere Natale e Capodanno in famiglia e, nello stesso tempo, profittare del periodo teatrale migliore, in una città come Napoli, generalmente poco redditizia. Si faceva affidamento su quei giorni festivi per colmare passivi finanziari, per prendere respiro prima di inoltrarsi nei centri di provincia e affrontare le pesanti spese dei continui trasferimenti. La gestione della compagnia di mio padre gravava unicamente sulle sue spalle. Non vi erano allora né sovvenzioni ministeriali, né premi per una compagnia dialettale; né essa dipendeva, come tante altre, da qualche impresario con i milioni in banca. No, la sua era un'impresa che si basava unicamente sugli incassi che, sera per sera, si realizzavano. E che questi incassi fossero assai spesso magri lo testimoniano le lettere di Viviani alla moglie, nelle quali, sovente, con profonda angoscia, egli riferiva i conti che via via gli faceva l'amministratore. E questo per far partecipe la famiglia di ciò che egli provava quando era costretto a chiedere il danaro per far fronte agli impegni della compagnia, invece di spedire a casa il guadagno del suo faticoso lavoro.
L'assedio di casa nostra cominciava prima ancora che mio padre fosse arrivato a Napoli, quando apparivano sui muri della città i manifesti che annunciavano il suo debutto. Si mettevano in moto, in quell'occasione, i fornitori, i vicini di casa, i conoscenti, gli amici, i parenti, i pezzi grossi, le autorità. Tutta gente che riteneva sinceramente bastevole vantare un incontro casuale, una banale relazione commerciale o professionale, per sentirsi inserita automaticamente nell'elenco di coloro che avevano diritto di chiedere e di ottenere l'entrata di favore. La pressione maggiore partiva non da chi non aveva il denaro per acquistare un biglietto: questi, in genere, si vergognava, non osava chiedere. La pressione era, invece, tanto più forte e insistente quanto più ricco e influente era il postulante. Più che un favore, costui rivendicava un palco o una poltrona quale omaggio dovuto alla sua persona. Comprare un biglietto per assistere allo spettacolo avrebbe rappresentato per lui una menomazione del proprio prestigio. Il telefono, in quei giorni, squillava continuamente e bisognava difendersi con molto tatto dagli assalti che continuavano poi, ancora più insistenti, in strada.
Ricordo, quando mi capitava di uscire con mio padre, scene che si ripetevano monotonamente. Cominciava il lustrascarpe situato sotto i portici della Galleria Umberto: «mi fate avere un posticino per me e mia moglie?», poi il tabaccaio dove mio padre comprava le sigarette: «la mia famiglia ha tanto desiderio di ammirarvi, quando ce lo regalate un palchetto?». E così, tutti quelli che incontravamo, fino al fattorino che staccava il biglietto nella funicolare di Montesanto che ci riportava a casa. Alla pressione diretta si aggiungeva quella indiretta che veniva dai familiari e dagli amici più intimi: «ho promesso due posti all'avvocato Tizio che ha difeso quella causa che ci stava a cuore... »; oppure: «dobbiamo regalare un palco al giudice Sempronio perché è sempre utile tenersi amico un magistrato... ». In genere, i portoghesi non si limitavano semplicemente a chiedere ingressi di favore, ma pretendevano che essi fossero per gli spettacoli diurni, per i festivi, proprio per quegli spettacoli, insomma, sui quali si faceva più affidamento per colmare le passività. A tavola si discuteva animatamente di quelle richieste. Ricordo le sfuriate di mio padre contro quelle ipocrite manifestazioni di sfruttamento. Quei suoi scatti rivelavano l'intimo dramma dell'artista che, prodigando ogni sua energia, la sua intelligenza e sensibilità al teatro in modo esclusivo e totale, viveva, tuttavia, nella continua angoscia che ostacoli economici avessero potuto impedirgli di continuare dignitosamente la sua opera di autore e di attore. La precarietà economica lo turbava profondamente. Un giorno, mentre l'intera famiglia era riunita a pranzo e mio padre si stava lasciando andare a uno dei suoi consueti sfoghi conto i portoghesi, squillò il telefono e fui io che andai a rispondere: «Sei tu bella bambina? Io sono un carissimo amico del babbo, il dottor Caio. Si può sapere come si fa per andare ad ammirare il grande artista?». La mia risposta arrivò prima ancora che potessi riflettere sulle conseguenze: «L semplice, si va al botteghino del teatro e si compra il biglietto». Tornata a tavola mia madre mi rimproverò aspramente: «Cosa hai fatto! Quello è una altissima autorità! Si sarà certamente offeso... ». Mio padre non profferi parola, si limitò invece, soltanto, a rivolgermi uno sguardo, che era di approvazione e di riconoscenza, che mi bastò.

LUCIANA VIVIANI


Raffaele Viviani: ricordi

Ho perduto mio padre da circa trent'anni e di lui mi è rimasta una struggente nostalgia.
Nostalgia del suo meraviglioso sorriso, nostalgia delle interminabili sere trascorse in teatro ad ascoltarlo, nostalgia dei suoi ritorni a casa dalle tournée teatrali che erano sempre per tutti noi festa grande. L'ultima volta che ha recitato i suoi versi è stato un tardo pomeriggio del febbraio 1950. Eravamo soli nella sua camera da letto, dove era ormai ammalato da tre mesi per non più riaversi. Morì un mese dopo.
Cominciò lentamente a dire con la sua voce piana, ma densa d'infinite sonorità, e andò avanti per ore. Ogni tanto s'interrompeva e io, presente, temendo di troncare un incanto che lo rendeva felice, gli suggerivo il verso sfuggito alla sua memoria. Questo è accaduto più di una volta e lui - «grazie Yvonne», e ha proseguito.
Non ho mai tentato di fermare nello scritto i miei ricordi, temendo di non riuscire a rendere la pienezza delle infinite sensazioni che mi ha dato l'invidiabile sorte di essere nata da lui. Ora, riordinando per questo libro le cartelline che raccolgono le tante fotografie di lui uomo, di lui artista, sono tentata di farlo, quasi per alleggerire la mia mente da pensieri diventati nel tempo, ancor più dopo la morte di mio fratello Vittorio, compressi e dolorosi.
In queste sere è in scena al Maschio Angioino Festa di Piedigrotta. È una sagra popolare del 1919. Ho assistito a molte prove e vado ogni sera a teatro come a un rito. È sempre e soltanto per ritrovare lui. E sono così gelosa della sua creazione fantastica che soffro se ascolto una frase modificata o aggiunta dall'attore, perché egli non lo avrebbe permesso mai. Ho ritrovato ritratti nella mia memoria le situazioni, i versi, le musiche, le posizioni teatrali. E mio ascolto della sua rappresentazione si riferisce a me bambina di soli quattro anni quando Vittorio, un po' più grande di me, impersonava il figlio della guardia nello spettacolo. Anche noi, come tutti i figli d'arte, abbiamo vissuto da bambini l'avventura teatrale. È una esperienza esaltante che si vive inconsciamente, ma che ti dà una ricchezza che non si consuma mai perché il solo ricordo di quelle ore lontane allevia le infinite e piatte situazioni quotidiane.
Abbiamo poi vissuto, ciascuno a suo modo, le inevitabili malinconie della permanenza nei collegi. I nostri genitori viaggiavano e noi quattro non potevamo essere affidati ai vecchi zii di mia madre.
Quando, nel settembre del 1912, Raffaele Viviani e Maria Di Maio si sono sposati avevano ventiquattro e diciotto anni. Gli zii Gesualdo li hanno ospitati. Era una casa molto modesta a un primo piano di vico II Cisterna dell'Olio nel cuore della vecchia Napoli. In quella casa siamo nati noi quattro e nel frastuono di quelle strade mio padre ha scritto il suo teatro fino al 1926.
Mio padre, che era rimasto anche lui orfano di padre a soli dieci anni, si era legato allo zio Gesualdo, tutore di sua moglie, con tenero affetto. Aveva preso subito l'abitudine di consegnargli tutti i suoi guadagni e di sottomettersi a delle strane regole. Quando recitava a Napoli era costretto a recarsi subito a casa dopo il teatro perché gli zii lo aspettavano per andare a letto, non avendogli mai consegnato le chiavi di casa. I miei genitori per non dispiacerli non avevano mai forzato la loro volontà. Nel 1926 lo zio gli annunziò per lettera che aveva avuto una «combinazione» e gli aveva acquistato la casa al corso Vittorio Emanuele. I miei genitori diventarono così proprietari e mio padre, che aveva ormai trentotto anni e aveva sempre vissuto in bruttissime case o in camere mobiliate durante il suo peregrinare, impazzi di gioia. Si improvvisarono arredatori e trasformarono questa casa, in un vecchio palazzo umbertino con i balconi sulla città, in una ridente e confortevole dimora.
Mio padre la volle bella e continuò per anni a pagare (come è testimoniato nelle sue lettere a mia madre) il ferraio, il marmista, il mobiliere, perché i mobili li ordinò pezzo per pezzo. La casa rappresentò per lui il suo rifugio materiale e spirituale.
Mia madre per accudire noi già grandi era costretta a viaggiare solo sporadicamente. Le lettere di mio padre sono tutte pervase dal sogno e dal desiderio di fermarsi almeno per un po' nel suo giardino.
Pur essendo in viaggio per almeno undici mesi all'anno, mio padre ci dava l'impressione di essere sempre con noi. Le sue comunicazioni caratterizzavano le nostre giornate, anche due lettere in un sol giorno, telegrammi per comunicare tempestivamente un avvenimento importante ma anche per dire soltanto buon giorno. Le telefonate non passavano inosservate né c'era allora la teleselezione. Spesso era costretto ad attendere il suo turno in un malinconico ufficio postale, ma la gioia di comunicare con mamma anche per soli tre minuti lo compensava e lo ritemprava per nuove prove. Da una sua visita a Murano arrivarono a casa due enormi casse: piatti, animali, anfore, un grande specchio con la sua cifra. Da Firenze spedì a casa piatti, vasi farmacia e da una sua tournée in Sardegna la casa fu invasa da cesti per tutti gli usi. Dopo tanti anni i miei bambini ancora giocavano con questi grandi cesti di paglia.
A un suo carissimo amico fiorentino artigiano di pelle commissionò tante cornici. Mio padre amò avere nel suo studio le testimonianze di ammirazione alla sua arte. Primi fra tutti i suoi colleghi: Ettore Petrolini, con il quale mantenne sempre un fraterno rapporto di reciproca stima, Angelo Musco, Eduardo Scarpetta, Ermete Zacconi, Ruggeri, Mayol, il grande comico francese.
Di Ettore Petrolini ricordo una bellissima giornata passata nella sua villa a Castel Gandolfo. Cantò per noi accompagnandosi con la chitarra e si lasciò andare a chiosare qualche collega dal tono «ufficiale». A Onorato che gli domandò: - «Ma Ettore, a te non piace nessuno?», rispose: - «Non è vero, a me piace Raffaele!». Quando Petrolini venne a recitare al Fiorentini nell'inverno del 1931, mio padre era in alta Italia con la sua compagnia, ma ci telefonò d'invitarlo a casa e riuscì ugualmente a essere presente; il suo telegramma di benvenuto arrivò mentre eravamo a pranzo. Ed Ettore s'intrattenne con noi fino all'ora di spettacolo e si mostrò felice di constatare il benessere raggiunto dal suo amico e continuava a dire: - «Quanto ferro battuto! quanti marmi!». Nell'estate ci siamo incontrati ancora con Petrolini a Montecatini. Mio padre era al «Palazzo», il teatro vicino alla stazione. Ogni sera verso la fine del I atto c'era il passaggio di un treno che disturbava l'azione. Quella sera Ettore venne a teatro dove si rappresentava Il maestro di forgia. Mio padre aspettò che il rumore finisse per continuare la sua battuta, era un finale drammatico. Nell'intervallo Ettore salì in camerino a salutarlo e gli disse: - «Come siamo diversi. Io avrei detto che anche il treno ci si mette». Per Viviani la «quarta parete» era veramente un muro. Solo al termine della rappresentazione egli si sentiva di nuovo nella folla. Non l'ho mai sentito improvvisare ed evitava di proposito un applauso che gli disturbasse un'atmosfera.
Guardo le fotografie di Siamo tutti fratelli, una trascrizione di Viviani da So' muorto e m'hanno fatto turnà a nascere di Antonio Petito, e vedo lui nelle vesti di Pulcinella, aereo, leggiadro, con i piedi che sembrano sospesi nell'aria. Di quella prima genovese, 10 ottobre 1941, ricordo tutto. La sua ansia prima di entrare in scena, lui sempre così sicuro... il bisogno di recarsi in chiesa per pregare, e lo fece con tanto fervore. Non era sicuro di ricordare la parte a memoria, lo infastidiva di dover recitare sotto la pesante maschera di cuoio nero; le prove, lunghe e scrupolose come sempre, lo avevano stancato. Per questo spettacolo si era impegnato anche economicamente. Scene di Cristini su bozzetti di Paolo Ricci, costumi di Onorato e la regia di suo figlio Vittorio.
Per la guerra le città erano già al buio e il pubblico non era molto numeroso nei teatri. Mio padre doveva mantenere i suoi impegni e non poteva sperare in aiuti da nessuna parte, lui che sovvenzioni non ne ha mai avute. Lo spettacolo andò molto bene e la critica fu positiva, primo fra tutti Enrico Bassani, uno dei pochi critici che ammirava tanto Viviani da essergli amico. Dopo lo spettacolo ancora due ore in teatro per le foto, che ora sono qui a testimoniare quell'indimenticabile sera. Tra gli altri, un giovane entusiasta era fuori il camerino ad aspettare che mio padre si struccasse. Gli feci compagnia e si presentò: Ivo Chiesa. Simpatizzammo scoprendo che avevamo in comune l'amore per il teatro e lo stesso nome di battesimo. Gli promisi che gli avrei spedito da Napoli alcuni testi di Petito (allora introvabili); ricordo di averli cercati e spero anche di aver mantenuto la promessa. È passato tanto tempo e di quel breve incontro ho sempre serbato una dolce memoria.
Quella sera mio padre era Cicciariello, il giovane pescatore del suo dramma I pescatori del 1924. Ero nel camerino del Teatro Fiorentini, una sera emozionante come tante della nostra adolescenza. L'arrivo frettoloso dell'amministratore annunzia la visita di una personalità. Entra in camerino, seguito da una piccola corte e in compagnia di un imberbe figliuolo. Alla presenza di mio padre disse con un certo sussiego al suo ragazzo: - «Ti presento Raffaele Viviani, il maggior esponente del folklore italiano!». Non avrebbe dovuto dire, secondo le regole del galateo (allora abbastanza rispettato): - «Viviani, le presento il mio figliuolo»? Ora capisco quanta degnazione c'era verso quest'artista che dal nulla, faticosamente, era arrivato a distinguersi tra milioni d'italiani.
Mi ero spesso domandata perché mio padre ostentasse quasi il suo titolo onorifico. Solo dopo la sua morte ho potuto darmi una risposta, quando, riordinando le sue carte, ho trovato la testimonianza di una lettera del senatore Nicola Romeo, il quale gli comunicava in data 8 aprile 1931 il suo disappunto per aver trovato grande difficoltà di fargli conferire la nomina a Grande Ufficiale della Corona d'Italia: - «Indovinate chi vi è contro? Napoli (e non posso esprimermi altrimenti), la città natale, quella che dovrebbe piangere di gioia, non sente l'orgoglio del figlio che si afferma nel mondo. Si è riscritto a Napoli di mandare informazioni supplementari, per non dire di cambiarle». Forse mio padre, sentendosi poco accettato per i suoi personaggi e i temi dei suoi lavori, sperava da Grande Ufficiale di riuscire a conquistare quei signori che gli erano sempre stati ostili.

YVONNE VIVIANI

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