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11.8.09

ΕΝΑΣ ΝΕΑΝΙΚΟΣ ΕΡΩΤΑΣ ΤΟΥ ΠΑΒΕΖΕ: Η ΕΛΕΝΑ ΣΚΑΛΙΟΛΑ


Pavese. Quel segreto amore di gioventù

di Massimo Novelli


Anche lei era di Santo Stefano Belbo. Aveva nove anni più di lui
Rimangono tracce nelle lettere e in un appunto del "Mestiere di vivere"
Prima di incontrare la "donna con la voce rauca" lo scrittore ebbe una storia con una giovane insegnante, Elena Scagliola
Cesare Pavese ebbe grandi e tormentati amori, come rivelano la sua corrispondenza, il diario, le biografie a lui dedicate: da Tina Pizzardo a Fernanda Pivano, da Bianca Garufi a Costance Dowling. Ma nella sua vita ci fu un'altra donna, la cui identità è rimasta sconosciuta fino a oggi per varie ragioni: innanzitutto la precoce morte di lei, avvenuta appena tre anni dopo il suicidio dello scrittore, e quindi la decisione, da parte di una sorella, di bruciare le lettere inviatele da Pavese dagli inizi degli anni Trenta, probabilmente a partire dal 1932, al 1942. Il tempo cancella, tuttavia a volte restituisce qualche frammento, magari per una semplice casualità: un pronipote, Paolo Scagliola, ha scoperto in casa, ad Alba, le copie di alcune poesie che Pavese aveva dato a lei. Ne ha parlato con Ugo Roello, a lungo responsabile della Biblioteca «Luigi Einaudi» di Dogliani e appassionato cultore pavesiano. I due sono andati a trovare l´avvocato Igino Scagliola, l'anziano fratello della donna, nonché nonno di Paolo.
Così la figura di Elena Scagliola è riemersa dall'oblio. È la storia di una giovane donna (era nata nel 1899) bruna e minuta, libera (amava fumare il toscanello), vivace e piuttosto colta rispetto alla maggioranza delle coetanee dell´epoca, che non aveva esitato ad andare a vivere da sola per qualche mese in Francia per potere perfezionare il suo francese, che avrebbe insegnato. Era nata e cresciuta in una agiata famiglia di commercianti di vino di Santo Stefano Belbo, lo stesso paese natio di Pavese, più giovane di nove anni. I ricordi dell'avvocato Scagliola sono stati fondamentali. Il Centro studi «Gozzano-Pavese» dell'Università di Torino, diretto dalla professoressa Mariarosa Masoero, ha consentito poi di consultare le lettere (nove), le cartoline (quattro), un telegramma e un biglietto postale che Elena spedì a Cesare fino al 1942.
Fu un vero amore? Per un certo periodo, sicuramente. Non soltanto perché lei, il 18 gennaio del 1937, da Fano, dove si era trasferita per lavoro, gli domandava in un biglietto: «Perché non scrivi? Sono in pensiero. Fatti vivo anche con un semplice saluto». E il primo gennaio del 1938, ricevendo una copia di Lavorare stanca con la dedica «a Elena», gli scriveva con nostalgia «... tu già vivi tra i miei ricordi più cari». Oppure perché ancora nel marzo del ´38 gli faceva sapere: «Carissimo Pavese, sei il ricordo più bello della mia vita». C'è dell'altro. Soprattutto tre lettere dell'autore de La luna e i falò, conservate tra le sue carte e successivamente pubblicate nel volume einaudiano delle Lettere 1924-1944, che testimoniano l'intensità della relazione. Risalenti al settembre-ottobre del 1932 e indirizzate a una certa E., che nelle note dei curatori dell'epistolario viene definita «collega di Pavese nell'insegnamento», contengono frasi eloquenti: «Sono stato male tutto il giorno a non vederti sulla strada di Crevacuore»; «Fa, E., che tutto non finisca qui: dammi una probabilità di amarti meglio, di esserti più fedele nei miei pensieri, più degno di te!»; «... io non dimenticherò mai una sola cosa: che ti ho insegnato - ti ho costretta - a baciarmi sulla bocca. Ho sentito contro le mie braccia, svegliarsi in te una vita nuova».
Si amarono. L'apice della relazione coincise con i giorni trascorsi a Bra, dove entrambi avevano ottenuto una supplenza. In seguito la passione si stemperò in una amicizia affettuosa, anche perché, nel frattempo, Pavese si era invaghito di Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca». Fu la guerra, con ogni probabilità, a separarli per sempre. C'è un appunto di Pavese, ne Il mestiere di vivere, risalente al 26 gennaio del 1938, che parrebbe indicare l'incrinarsi del loro rapporto: «Oseresti tu causare tanto male? Ricorda come hai congedato Elena. Ma tutto è ambivalente. L'hai congedata per virtù o per vigliaccheria?». Sembra scontato che il riferimento sia alla E. delle lettere d'amore del '32. L´avvocato Scagliola, che ha novantasei anni e una memoria straordinaria, non sa quando tramontò la passione fra sua sorella e lo scrittore. Rammenta benissimo invece la prima volta che lo vide in casa sua, a Santo Stefano Belbo, vicino alla ferrovia.
Era il periodo in cui Pavese veniva a trascorrere qualche giorno nel suo paese, affittando una stanza alla trattoria della stazione, nei pressi dell'abitazione di Elena. Racconta l'avvocato: «Doveva essere settembre, si era all'imbrunire. Rientravo dopo avere fatto la mia partita di biliardo. In salotto trovai tutto buio. In un angolo mia mamma sonnecchiava su una poltrona. Pavese e mia sorella erano seduti sul divano, lui stava con le braccia dietro la testa, appoggiato allo schienale, e guardava verso il soffitto. Nessuno parlava. Ho acceso la luce, ci siamo salutati. Dopo, quando Pavese se ne è andato, ho chiesto a mia madre che cosa avesse detto ad Elena. E lei, con il suo accento genovese: "In due ore non ha detto una parola". Ma è probabile che non parlassero perché non erano soli, come avrebbero preferito». Prosegue l´avvocato Scagliola: «Volete sapere che tipo di rapporto ci fu fra Elena e Pavese?». Sorride, risponde: «Qualcosa di più di un'amicizia, un po' di più. Anche se tra loro c'era pure un'attrazione sul piano intellettuale. Elena, del resto, era la più istruita e la più libera della famiglia».
Elena morì nel 1953, dopo essersi sposata con un cugino nel 1947. «Quando mia sorella Gisella riordinò le sue carte, si imbatté nelle lettere di Pavese. E volle bruciarle», ricorda. «Perché lo fece? Per rispetto verso Elena». Del loro amore, allora, scomparve ogni traccia. Conclude Igino Scagliola: «Mi chiederete perché questa storia non era venuta alla luce. Ve lo spiego subito: nessuno mi aveva mai chiesto di raccontarla». Ora, grazie anche a lui, l'amore fra Elena e Cesare ritrova la tenerezza e le illusioni di una bella estate.

Repubblica 15 marzo 2008, p. 58.

4.5.08

ΕΝΑ ΠΟΙΗΜΑ ΤΟΥ ΤΣΕΖΑΡΕ ΠΑΒΕΖΕ: "ΤΑΝΓΚΟ"



CESARE PAVESE


TANGO


Mi son visto una notte in una sala chiusa
e l’abbraccio dei corpi che danzavano,
sollevati e schiantati dalla musica,
sotto la luce livida che filtrava nei muri,
di lontano, mi soffocava il cuore
come in fondo a un abisso, sotto il buio.
Tra bagliore e bagliore,
giungono spaventose scosse di una tempesta,
che impazzisce là in alto, sopra il mare.
Mi giungevano a tratti,
pallide e stanche,
le ombre dei danzatori,
vibrazioni di un mare moribondo.
E vedevo i colori,
delle donne abbraccianti
illividirsi anch’essi,
e tutto rilassarsi
di spossatezza oscena,
e i corpi ripiegarsi,
strisciando sulla musica.
Solo ancora splendeva
su quella febbre stanca
il corpo di colei
che fiorisce in un volto
tanto giovane e chiaro
da fare male all’anima.
Ma era solo il ricordo.
Io la guardavo immobile
e la vedevo, dolorosamente,
nella luce del sogno.
Ma passava strisciando,
senza scatti più, languida,
con un respiro lento
e mi pareva un gemito d’amore,
ma l’uomo a cui s’abbandonava nuda
forse non la sentiva.
E un’ubbriachezza pallida
le pesava sul volto,
sul volto tanto giovane e stupendo
da fare male all’anima.
Tutti tutti tacevano di ebbrezza,
travolti dentro il gorgo
di quella luce livida,
posseduti di musica,
nelle carezze ritmiche di carne,
e stanchi tanto stanchi.
Io solo non potevo abbandonarmi:
cogli arsi occhi sbarrati,
mi fissavo smarrito
su quel corpo strisciante.